In una delle moderne lettere che sono le e-mail spesso inviate velocemente e con tempi contratti e in stile telegrafico, Nelida Mendoza mi scrive: "eccomi qui nel mio piccolo mondo, dove cerco di prendere la mia dimensione, rilassarmi e trovare delle nuove energie. Sai dovresti venire, a vedere il mio giardino che mi carica tanto di positività".
Nelida Mendoza vive a Giardini Naxos, vicino a Taormina in Sicilia, scelta, quest'ultima per elezione di "vivibilità" e umanità in quanto nei profumi siciliani si trovano più facilmente tracce di gesti e comportamenti ancorati ad un passato arcaico. Perchè nei lavori di Nelida si ritrova uno spirito nomade che cerca nella memoria e nei materiali atti e gesti antichi come quelli degli Indios d'America. Sono suoni e presenze di un colloquio intimo e interpersonale. Ancorare il passato alla memoria collettiva fa emergere la rete di un reciproco riconoscimento che nelle relazioni quotidiane si tessono ininterrotte, appuntando nodi, districando emozioni, sulla cui soglia noi viviamo confondendo il limite tra pubblico e privato, oltrepassando ora l'uno, ora l'altro. Sono riti che svolgiamo quotidianamente transitando dall'uno all'altro.
Così accade che la relazione tra intimo e pubblico è come se venisse continuamente rovesciata in un ingigantimento emozionale che diventa "Io pubblico" dell'indifferenza e dell'anonimato.
Le riflessioni che Nelida Mendoza mi appunta quale origine del lavoro che ha preparato per la Lift Gallery riguardano proprio la soglia di un "momento dilatato", una sosta in movimento nella vita quotidiana rappresentata dallo "spazio" tra due realtà: l'intimo della propria vita privata rappresentato dalla porta della propria casa chiusa dietro di noi, e la "sospensione" di un luogo altro (l'ascensore) che ci conduce "fuori" verso la realtà pubblica.
Tra il pubblico e il privato corre il silenzio "imbarazzato" degli incontri. Scrive Nelida: "è come se si indossasse ancora quell'intimo che rimane comunque dietro la nostra porta. Ci sono elementi che noi stessi portiamo di qui e di là della soglia. Una può essere questa busta della spesa, difficilissima da aprire nel momento che ci serve al Supermercato, molto ingombrante a casa, senza una ubicazione specifica...".
Da queste note nasce l'idea di costituire per quel luogo di transito, che ci provoca imbarazzo per un "privato" rilevato dalla presenza dell'estraneo, il vicino o il visitatore di passaggio, una seconda pelle. Perché nell'idea di corpo, il nostro, o di "corpo" quale oggetto, la pelle rappresenta la "soglia", il limite di un interno chiuso al visibile e di un esterno aperto, osservato, tangibile, con gli occhi e con le mani.
Le mani sono indicate dall'osservazione di Nelida, in quanto conducono l'oggetto "ingombrante", costituito dalla plastica tanto comoda ma difficile da smaltire, che transita da "Io pubblico" al privato della nostra casa.
Le buste di plastica racchiudono quindi e si mostrano come il simbolo del rito di passaggio, scelto dalla Mendoza nella proposta per la Lift Gallery, lo sono in quanto testimonianza di quelle mani che tengono ma che anche tessono atti e gesti che si ripetono reiterati, monotoni mentre invece, nella loro minima semplicità, comprendono il nostro vissuto, la nostra "sporta quotidiana". Sono simboli sottovalutati dalla produzione dello spreco non attento al risparmio dei materiali.
A differenza delle belle borse di plastica intrecciate e di varie forme e coloratissime che le donne indiane portano con sé per porvi dentro e trasportare non solo la spesa, ma il vitto quotidiano.
Vi è nella quotidianità degli atti una qualità estetica e un aspetto simbolico ed è questo che interessa Nelida. L'ingombrante busta di plastica è riconvertita in pelle nella proprietà che attua per noi il trasporto dal pubblico al privato poiché contiene ed è contenuta. Per diventare pelle riprende l'atto antico del tessere, gesto su cui si misurano i cicli delle civiltà.
Ed è proprio "lei", la busta di plastica, emblema di una contemporaneità che "usa e getta", accumulando rifiuti, ad acquisire una nuova dimensione estetica ed artistica.
Diviene tessuto, e prima di essere tale è filo, nastro intrecciato da gesti collettivi, simbolo ma anche concretezza del fare, dell'agire e del trasformare. Si potrebbe dire che "nulla" esiste al di là del tessere. Poiché siamo sempre in una rete di rapporti fisici e immateriali che cambiano continuamente mutando la nostra identità temporaneamente costituita dal fluire delle relazioni e dei reciproci riconoscimenti.
La seconda pelle della mini-galleria mobile, estende dentro di sé e nel modo come si costituisce il senso di spaesamento determinato dalla percezione del luogo come "soglia". È infatti la sospensione di essere in una "terra di nessuno", tra pubblico e privato che connota l'imbarazzo di una vicinanza e di una separazione mentre il tempo della sospensione si ferma segnando una breve parentesi nel procedere dei nostri percorsi.
La membrana costituita dalla fisicità dell'ascensore, diventa percettivamente lo specchio di due realtà sulle quali spesso ci domandiamo dove sia il limite.
Scrive Nelida "Penso che l'ascensore è una membrana, una soglia che ci sposta in un tempo più lento fra queste due realtà". L'arcaicità del gesto del tessere è cercato nella nuova pelle che riveste un luogo normalmente vissuto al di fuori della sua qualità estetica.
È il gesto che accomuna la mano di una donna di un laboratorio triestino a quella dell'Indios, che stringe il filo e mentre il disegno si costituisce, la mente è nel disegno, nei colori in una identificazione gioiosa e primaria in quanto lo strumento non è la spola che passa da destra a sinistra in un processo di continuo ritorno, ma è la sua "gioia" del fare.
Nel lavoro di Nelida all'interno della nuova "pelle" di plastica intrecciata, vi è di fatti la testimonianza di tessuti degli Indios d'America, quale inserto nelle piccole finestre dell'ascensore. Chiamati "nanduti" sono tipici del Paraguay e sono fatti con fili di "caraguatà". L'interesse dell'artista verso i gruppi aborigeni del Chaco paraguayo dell'Amazzonia l'ha condotta ad iniziare uno scambio con loro per sostenerne il modo di vita, testimonianza ulteriore di presenza al di là della capacità onnivora dell'occidente che ne distrugge l'habitat rubando legname e territori, costringendo queste popolazioni a "isolarsi sul monte".
Dai territori fisici a quelli mentali, da "Io pubblico" di una Sicilia che si chiude nelle case per esorcizzare lo spazio pubblico quale anonimo ed estraneo, all'intimità del gesto del tessere che coinvolge concretamente nel "lavoro" artistico quello di altri, riconoscendo la relazione e la condivisione quale aspetto dell'arte. È la riconoscibilità dell'altro che Nelida vuole testimoniare con il suo lavoro: dall'indios d'America, alle donne di un laboratorio triestino di tessuti, a quelle di un condominio romano, a "Io pubblico" di una busta di plastica, contenitore anonimo di una "vita privata", stesa al sole ad asciugare su un balcone di un paese siciliano.
Il raccordo che l'artista fa e Nelida lo ribadisce è quello di essere "nodo" ed intreccio che scorre, scorre...

Roma, ottobre 2007                                                                                                                                                               Gabriella Dalesio