...microcosmo semovente la "vita di un palazzo" (fatta di tante vite diverse), luogo anomalo per le dinamiche ascensionali e discensionali che permette di compiere ad un uomo (anche se fermo!), eppure cosi consueto e familiare; dunque luogo in grado di innescare, più o meno metaforicamente, moti che da esteriori, fisici, possono rimbalzare in dinamismi ben più profondi e interiori (e forse proprio questo è il fine primario della Lift Gallery).
ll limitato volume dalla forma molto originale ne svela la forzata presenza in un'architettura che non lo prevedeva, la creatività di alcuni dei suoi inquilini lo ha reso, invece, elemento nobilitante e irrinunciabile di tutto lo stabile, riqualificato nel segno dell'Arte proprio grazie al suo ascensore.
La nascita della Lift Gallery è un'operazione di arte nel sociale dove dialogo personale con l'espressività creativa e relazionalità tra individui sono attivati a partire dal microcosmo di un luogo-non luogo in cui, per esiguità di tempo e per il disagio di distanze troppo ravvicinate, regna di regola un imbarazzato silenzio; l'ascensore diviene, così, strumento/luogo di confronto con l'arte, dunque con se stessi e con gli altri che collettivamente vivono la stessa esperienza, e allarga il suo raggio di azione dal condominio alla città.
Questa volta l'ascensore in causa diviene strumento musicale e cornice viva per le voci e la gestualità di due importanti poeti sonori come Antonio Amendola e Tomaso Binga che comporranno Sonanta!, un evento in cui "le cose suonano" e "risuonano": suonano le pareti e le grate di un ascensore o le ringhiere della tromba delle scale, risuonano vibrazioni tecnologiche e parole meccaniche, che scuotono e mirano a far riecheggiare le coscienze, e ancora suonano sillabe onomatopeiche che imitano versi naturali e parole di una lingua mista e sconosciuta, dagli ascoltatori solo intuibile nel senso. Il suggestivo e irreale latinismo del titolo, utilizzato spesso anche nelle poesie sonore di Amendola, vuole informare sull'uso di un linguaggio diverso, insieme antico e universale (il suono e il gesto), ma anche contemporaneo e di ricerca nei messaggi e nelle modalità.
Si rinnova, perciò, ancora una volta il rito della trasmutazione di fronte agli occhi degli intervenuti, l'arte rigenera il luogo e ne cambia la natura: l'ascensore, chiamato da Antonio Amendola, come da un semplice condomino o da un ospite di qualche inquilino, giunge al piano terra e, aperto con garbo e cura, come la custodia di uno strumento dai suoni preziosi e rari, semplicemente rivela il suo spazio, le sue pareti, il suo amorfo cromatismo; l'artista vi entra e comincia ad accordarlo, a testarne le possibilità sonore, a variare ritmiche e oggetti con cui percuoterlo: il risultato è una musica fatta di rumori modulati dalla sensibilità sapiente dell'estro e dell'esperienza di un musicista quale è Amendola, che solo in una seconda fase riveste la sua musica di "verbalità" sonante e la rende poesia sonora. Il ritmo delle percussioni parte dall'interno dell'ascensore e si espande all'esterno su tutte le superfici in grado di produrre suono, ma ecco che, chiuso ormai, l'ascensore viene richiamato e dopo pochi istanti ritorna ad aprirsi, questa volta palesando una presenza assai sorprendente: Tomaso Binga (spiazzante nome d'arte di Bianca Menna), con in testa un cappello da prete e sul naso occhiali neri bordati di bianco, avanza fino al bordo della ripida scala dell'atrio da cui fa calare il lunghissimo abito talare nero che indossa, in play-back finge di leggere da un breviario appeso al collo la poesia Il Confessore elettronico, diffusa ad alto volume da un registratore e scandita da un "bip" metallico persistente; al termine lascia cadere il breviario che si estende fino a terra con un'apertura a soffietto.
Dissacrante, fin dal primo approccio anche solo visivo, questa performance di Tomaso Binga mette alla berlina in modo spiazzante le convinzioni assodate, che troppo spesso sono ipocrisie: un prete che è una donna e che, peggio, si rivela una macchina; una confessione che è una procedura automatizzata, in cui ad ogni azione perentoriamente, ma inespressivamente prescritta, corrisponde un insistente "bip bip" e un perenne cantilenante "attendere prego", tiritera consueta che subiamo per qualunque operazione si debba effettuare nella nostra società, che a svolgerla sia un computer, un centralino, un impiegato, un negoziante, un medico, ecc.; una filastrocca a rime in cui si sciorinano con la stessa cadenza i peccati dai più bigotti a quelli più terribili fino ai non-peccati, sottolineando con ironia, cifra costante del lavoro di questa artista, come alcune plausibili o anche doverose azioni (ad esempio protestare con i datori di lavoro, "disturbare" i sindacati) possano apparire gravi colpe agli occhi acritici di una mentalità programmata in modo conforme a obsolete consuetudini; infine l'allusione al potere del denaro capace anche di mondare i torti (con il gettone finale si può ottenere la penitenza e l'assoluzione). L'ascensore accoglie nuovamente il lento ritorno del confessore al suo interno e si prepara a trasformarsi in un estemporaneo confessionale pronto a "elevare" le coscienze e i corpi di chi deciderà di mettersi in gioco, per temerarietà, per curiosità o più semplicemente per non fare a piedi le scale.
La Lift Gallery aveva, nel dicembre del 2003, già ospitato il discusso intervento di Gianfranco D'Alonzo che aveva reso l'ascensore un reale confessionale, facendovi entrare un vero sacerdote disponibile a dispensare la grazia dell'autentico Sacramento della Confessione. La Lift Gallery dunque ribadisce spesso la sacralità fondante del momento artistico, che può anche essere tramite di una metafisica religiosa (e il passato dell'arte è ricco di esempi in questo senso), ma la declina in forme diverse, a volte facendola coincidere con una situazione di effettiva natura cultuale, a volte creando i presupposti per un chiaro gioco di contrasti spiazzanti fra sacro e profano, a volte puntando a crearla nella dimensione della convivialità che fa da cornice essenziale ad ogni inaugurazione, a volte facendola respirare nei silenzi d'ascolto di musica e poesia che circondano o sostanziano gli eventi, ma sempre sottolineandola attraverso la ritualità costante che caratterizza l'inizio di ogni manifestazione della galleria, ossia "la posa dell'opera nell'ascensore".
ll passaggio alla performance poetica di Antonio Amendola è segnato da un leggero armonico intreccio di suoni che rivela la sintonia dei due artisti, spesso ritrovatisi a lavorare insieme. Amendola "vocalizza" il poemetto Kukusca e Baraben da lui composto immaginando di dar voce a due personaggi sonori di per sé, il cuculo, caratterizzato dalla regolare cadenza del suo verso, e il tamburo, strumento musicale la cui peculiarità è il ritmo variabile della vitale percussione. Il dialogo è fitto e alterna fasi puramente sonore, segnate dall'imitazione verbale di suoni naturali e dall'uso dell'onomatopea che traduce rumori, a fasi di andamento più narrativo in cui i personaggi del dialogo quasi si presentano e raccontano attraverso un linguaggio originale e quasi incomprensibile (d'altronde sfido chiunque a capire cosa possano dirsi un cuculo e un tamburo!): Amendola adotta, infatti, un parlato misto, un plurilinguismo sperimentale che mescola fantasiosi latinismi, espressioni dialettali (dal vagamente romanesco al vagamente veneto), registri letterari diversi (dai toni colloquiali alle locuzioni auliche dal sapore arcaicizzante) e lessici molteplici (dalle parole consuete ai frequenti neologismi), orchestrando il tutto in una declamazione variata, ma strutturata, il cui ritmo denuncia chiaramente la sua natura prima di musicista, pur nei validi risultati di poeta-sonoro, la cui personale matrice ispiratrice egli stesso dichiara di ritrovare nel futurismo russo.
Maria Francesca Zeuli Roma, 30 novembre 2005